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lunedì 20 aprile 2020

LA BIOPSIA

Terza puntata. Per leggere le puntate precedenti scorrete verso il basso e andate ai post più vecchi.
Qualche giorno dopo il ricovero, mi fecero la biopsia. Non che avessero dubbi sulla malignità del tumore, ma ovviamente è di prassi e in più credo che possano ottenere da questo esame informazioni utili circa le cure. Mi portarono in questo piccolo ambulatorio ed era presente il medico che mi avrebbe fatto il prelievo e quattro infermiere. Mi fecero sdraiare sul lettino e si appartarono a un paio di metri da me per "studiare" un nuovo attrezzo che dovevano utilizzare per il prelievo. Immaginatevi la scena: siete lì coricate e non sapete cosa vi aspetta e sentite questi dire: "Cosa c'è scritto? Deve inserire questo e poi tirare lì. Ma come? Così? No, forse deve muovere questo stantuffo... O forse quell'altra roba lì". Ok, forse "quell'altra roba lì" non l'hanno detto, ma la conversazione era pressappoco questa. Insomma, avrebbero usato un dispositivo mai utilizzato prima, e io facevo da cavia. Fantastico. Alla fine si avvicinarono e mi dissero che era una cosa da niente, era la stessa cosa che facevano alle donne incinte per fare l'amniocentesi. Ora, io non so se è davvero così. Non so se è stato per via del dispositivo che non sapevano usare o se è davvero sempre così doloroso. Ma penso di poter dire che un dolore così lancinante io non l'ho sentito mai (e mi auguro di non sentirlo mai più). Oltretutto dovevo stare immobile perché se mi fossi mossa avrei peggiorato la situazione. E mi domando: possibile che per degli esami così dolorosi non sia prevista una piccola anestesia locale? Non sarebbe dovuto essere così doloroso ma lo è stato per loro incapacità? Insomma, in un modo o nell'altro mi hanno fatto due prelievi (uno alle ovaie e uno del liquido nell'addome) e mi hanno riportata in stanza. Per la cronaca: l'attrezzo utilizzato NON era una siringa. (Una piccola nota: io non ho avuto figli, per mia scelta. Non oso neanche immaginare quanto debba essere doloroso. Chi ne ha avuti probabilmente penserà che quello che ho provato io non è niente rispetto ai dolori del parto, e forse è così. Ma io credo che ci sia anche la parte psicologica che incide molto: se so che tutto quel dolore servirà a mettere alla luce mio figlio, lo affronto in un certo modo. Se so che serve solo per dare un nome e un codice alla mia condanna a morte, lo affronto diversamente):
Intanto quasi ogni mattina mi facevano anche un prelievo del sangue. Io ho le vene piccole e in profondità, hanno sempre fatto fatica a prendermi il sangue. Inoltre non l'ho mai sopportato: quando dovevo fare un prelievo il Top doveva sempre accompagnarmi e spesso svenivo anche. Ma in ospedale mi sono dovuta abituare, e spesso mi massacravano prima di trovare una vena. Nel frattempo diventava sempre più evidente che avevo problemi di respirazione. Mi fecero dunque dei raggi ai polmoni da cui si vide che il liquido aveva attaccato anche quelli. Si rendeva necessario togliere questo liquido perché potessi respirare. Venne una dottoressa molto dolce che mi siringò il liquido entrando con un ago dalla schiena, dopo una piccola anestesia locale (e infatti non sentii nulla). Me ne tolse più di due litri. Speravano che non si riformasse e invece dopo qualche giorno la situazione tornò al punto di partenza. Per cui decisero che era necessario fare un intervento che si chiama talcaggio: mettono infatti del talco nebulizzato nella cavità pleurica, il che impedisce il riformarsi di liquido. Ma questo avvenne una settimana dopo.
Intanto avevano deciso di trasferirmi in oncologia, ma dovevano aspettare che si liberasse un letto. Non ero ancora andata di corpo (lo so, non è un bell'argomento, ma è importante anche questo aspetto) ma sembrava che non se ne preoccupassero più di tanto. Da una parte per me era un problema in meno perché la stanza in cui mi avevano messa (e in cui, alla fine, passai quasi una settimana) non aveva neanche il bagno. Pensate che non aveva neanche una luce vicino al letto, mi dovetti far portare una lampada da casa per poter leggere di sera, perché con la luce centrale non sarei riuscita.
L'unica cosa bella che ricordo di questo periodo era quando al mattino alle 7, appena aprivano le porte per i visitatori, arrivava il Top. Per me quel momento era come poter tirare una boccata d'aria mentre si è sott'acqua, come una goccia di acqua in mezzo al deserto.
All'epoca ero diventata da pochi mesi admin di un gruppo Facebook di ricette vegane (e lo sono tuttora). Mentre ero in ospedale non scrissi nulla, non avevo la forza (psicologicamente) di parlare della situazione. Fece un post a tal proposito l'altro admin, giusto per far sapere i motivi del mio prolungato silenzio. Ricevetti moltissimi messaggi di conforto, da persone che di fatto non conoscevo ma che mi furono vicine virtualmente in quel momento tanto difficile. Si parla sempre di quanto i social siano dannosi, che si finisce per non avere più una vita vera ma solo virtuale. Per me invece è stato bello trovare tante amiche che mi incoraggiavano, e anche tante che hanno voluto condividere con me la loro esperienza. Perché è di conforto poter parlare con qualcuno che sa cosa stai passando, perché l'ha vissuto anche lei.
Chiudiamo questa puntata con una nota leggera. Ho letto a volte, in seguito, che è sbagliato identificare il tumore come un nemico, come qualcosa che dobbiamo combattere. Dobbiamo imparare ad accettarlo come una parte di noi. Io a questo rispondo con un finissimo francesismo: mavaffaculo!! Magari per qualcuno funziona, ma non siamo tutti uguali. Io lo sentivo come una cosa estranea che mi divorava dall'interno. Avevo anzi bisogno di visualizzarlo, per poterlo meglio combattere. Dopo pochi giorni che ero all'ospedale, non so perché, venne fuori dal nulla, decisi di dargli un nome: Anselmo. Davvero non saprei da dove sia uscito, non ho mai conosciuto nessuno con quel nome. E ho deciso che il mio mantra sarebbe stato: "Anselmo, levati dai coglioni!"
Quando in seguito ne parlai nel gruppo FB suscitai una grande ilarità, e qualcuno propose di stampare delle magliette. Una cara amica inventò persino una ricetta di una torta a cui diede quel nome. Ancora adesso ogni tanto qualcuno lo nomina e la cosa mi fa sorridere. Anselmo, ti sei tolto dai coglioni (dalle ovaie, per essere precisi), ora stattene lontano!

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