DOVE SI PARLA DI...

cucina, gatti, casa, e mille altre cose...ricette (dolci e un po' di salato), ma anche di gatti, libri, natura e tanto altro.


domenica 24 maggio 2020

ASPETTARE, ASPETTARE, ASPETTARE....

Nona puntata. Se avete perso le puntate precedenti scorrete verso il basso e cliccate su "post più vecchio".
Mi misi dunque "tranquilla" ad attendere la chiamata per il pre-ricovero. Nel frattempo cercavo di fare delle cose che potessero aiutarmi fisicamente in questa dura battaglia. Dietro forti pressioni del Top provai a seguire una dieta macrobiotica. Ne avevamo sentito parlare bene, avevamo già seguito dei video del dott. Berrino e provai quindi a seguire quello stile di vita. Andai anche da una nutrizionista a Milano che mi prescrisse una dieta piuttosto restrittiva. Già abitualmente molti alimenti vanno limitati moltissimo in questo tipo di alimentazione. Con una patologia così grave il cerchio si stringe ulteriormente. Essendo già vegana non ho avuto problemi per quanto riguarda carne e latticini. Poi via tutte le solanacee (melanzane, pomodori, peperoni e patate, insomma le mie verdure preferite), poca verdura cruda, zero frutta (ma quella l'avevo già eliminata perché dal ricovero avevo azzerato il consumo di zucchero). Legumi e cereali ma cotti in un certo modo. Via tutti i prodotti da forno. Insomma: già riuscivo a mangiare davvero poco, avevo proprio un blocco a livello dello stomaco (che credevo essere causato dal liquido addominale che faceva pressione), in più questi cibi li trovavo davvero poco appetitosi (non potevo usare spezie e tanti altri accorgimenti che uso di solito per cucinare). Così continuavo a calare di peso. Per fortuna avevo un bel po' di chili in più, così almeno quello non fu un problema! Ma mettermi a tavola con questi cibi che non mi piacevano proprio mi intristiva, a volte mi veniva proprio il magone. Ovviamente non era solo il cibo a causarlo, ma alla fine decisi che per quel poco che mangiavo, preferivo mangiare cose che mi piacessero, perché se è vero che l'alimentazione è importante, ancora di più lo è l'umore. Cercavo di prendere il sole, io che l'ho sempre evitato, per incamerare la vitamina D e infatti mi feci un po' di tintarella. Cercavo di camminare un po', io che ero sempre stata molto sedentaria. Dopo 10 giorni dalla visita stavo impazzendo, non avevo ancora nessuna notizia dall'ospedale. Scrissi così una mail all'infermiera responsabile dei pre-ricoveri e mi imbattei in una delle persone più gentili che io abbia trovato in tutto il mio percorso. Mi disse che stava per cominciare il giro di chiamate, che dovevo presentarmi il 29 maggio. un lunedì. Arrivammo allo IEO alle 7 del mattino e ne uscimmo circa 10 ore dopo. Ore passate quasi tutte in attesa. Mi fecero le varie cose che si fanno di solito e per ultima la visita dall'anestesista. La sala d'attesa era piena di gente e noi passammo per penultimi!! Uno stillicidio! All'anestesista feci presente che al primo ricovero mi avevano anche trovato un trombo, di cui poi non si era più parlato. Non sarebbe stato pericoloso per l'operazione? Tra l'altro avevano cominciato a farmi l'eparina quando ero in ospedale e, insieme al cortisone, era l'unica cura che mi avevano dato da proseguire a casa. Era quindi da un mese e mezzo che facevo l'eparina. In questo periodo (lo ricordo a chi leggerà in futuro), stiamo vivendo la pandemia del COVID19. Una cosa che ho sentito dire più volte è che non solo l'eparina non cura i trombi, ma usata per più di 15 giorni diventa anzi pericolosa.
L'anestesista si allarmò non poco, dicendo che era assolutamente necessario verificare con una TAC se il trombo fosse ancora presente. Qui ci rimasi proprio male perché mi ero aspettata che il chirurgo si attivasse per inserire anche quel controllo. Ebbi qualche dubbio sulle sue effettive capacità. Insomma, dovetti fare in fretta e furia una TAC per conto mio (per fortuna trovai un centro vicino a casa che me la fece il giorno dopo) e tornare a Milano a portare l'esito. Ebbene: sarà che l'eparina non funziona, ma il trombo era miracolosamente sparito. Piansi di gioia.
Mi dissero che mi avrebbero chiamata da lì a un mese per 'intervento e mi misi di nuovo ad aspettare. Quando non ne potevo quasi più arrivò finalmente la chiamata: l'intervento era fissato per il 14 giugno. Dovevo fare la preparazione il giorno precedente bevendo un litro di un liquido gelatinoso disgustoso che doveva pulirmi l'intestino (ma io non mangiavo quasi nulla, ormai avevo ben poco da evacuare) e rasandomi un po' ovunque. Nel frattempo mi ero anche tagliata i capelli, con le lacrime agli occhi. Sapevo che poi li avrei persi con la chemio, quindi non aveva senso fare tutto il periodo di ospedale con i capelli lunghi. Corti erano molto più pratici. Ma non fu un bel momento. Il mattino del 14 giugno ci recammo dunque all'ospedale, pronti ad affrontare il grande momento. La cosa pazzesca è che pensavo che, giunto il momento, me la sarei fatta sotto, invece ero abbastanza tranquilla. Non vedevo l'ora di liberarmi dell'ospite indesiderato e continuare con la mia vita.

sabato 16 maggio 2020

IL LIMBO

Ottava puntata. Se avete perso le puntate precedenti scorrete verso il basso e cliccate su "post più vecchi".
Perché il limbo? Perché è proprio lì che mi sono ritrovata dopo le dimissioni dall'ospedale e prima dell'operazione. In questa terra di nessuno, in angosciosa attesa di qualche notizia, di uno spiraglio di luce. Innanzitutto il lunedì mi recai a fare il prelievo per il test genetico. Chi risulta positivo a questo test ha molte più possibilità rispetto agli altri di ammalarsi di tumore. Perché dunque hanno deciso di farmelo anche se ero già ammalata? Perché in base al risultato sarebbero cambiati i protocolli delle cure.
Nell'ospedale di Alessandria i prelievi del reparto oncologia ed ematologia, sono in un piano interrato. C'è dunque questo grosso stanzone privo di finestre, con le sedie messe tipo cinematografo. Dunque non si vedono gli altri in faccia e si danno le spalle a quelli seduti dietro. Sembra una stupidaggine, ma a me ha fatto una pessima impressione. Per chi deve fare le terapie di solito funziona così: si arriva e si va allo sportello dell'accettazione facendo già una coda. Si ottiene un numero e ci si siede ad attendere il proprio turno. Su uno schermo compaiono man mano i numeri per accedere al prelievo quindi si aspetta, si aspetta, si aspetta... Dopo il prelievo ci si siede di nuovo lì finché non arrivano gli esiti (solitamente ci mettono almeno un'ora, se non di più), quindi si aspetta di nuovo. Quando compare il proprio numero ci si trasferisce in una sala d'attesa al piano superiore (ma sempre senza finestre) dove di nuovo si aspetta per la visita medica. E si aspetta, si aspetta, si aspetta... Insomma, in quel primo giorno ho subito capito che la cosa importante per me sarebbe stata imparare a essere molto paziente, io che non lo sono mai stata. Quel giorno a dire il vero, per il prelievo vero e proprio aspettai poco perché era un prelievo particolare e passai prima. Ma poi l'attesa si fece lunga. Dopo un bel po' andai a chiedere quanto avrei dovuto ancora aspettare e venne fuori che io non dovevo essere visitata, avrei anche potuto andarmene subito. Rimasi basita perché mi avevano dimessa dall'ospedale senza dirmi nulla, senza darmi un appuntamento per una visita di controllo. Avevo ancora addirittura i punti alla ferita del drenaggio al polmone, ma non sapevo quando avrei dovuto toglierli. Mi sentii un po' abbandonata. Insistetti dunque per poter vedere una dottoressa e una caposala un po' maleducata mi disse di aspettare lì che prima o poi sarei stata visitata. Insomma, dopo diverse ore vidi una dottoressa per fortuna molto gentile che mi fissò un appuntamento con il chirurgo toracico per togliere i punti, da lì a qualche giorno. Nei giorni seguenti provai più volte a contattare l'oncologo che mi aveva seguita in reparto, per avere notizie della visita a Milano e anche perché avevo cominciato ad avvertire una preoccupante tensione nella zona del fegato. Ero spaventata ma riuscii a parlargli solo dopo diversi giorni e, un po' scocciato, accettò di visitarmi. Sentì che in effetti il fegato sembrava ingrossato e mi fece fare una ecografia d'urgenza, ma per fortuna non venne fuori nulla di nuovo. Intanto non riuscivo a sapere nulla da Milano. Mi dicevano tutti "Ma telefona tu", ma a me sembra sempre di rompere le scatole e così alla fine lo prendo sempre in quel posto. Alla fine, al venerdì, mi decisi e chiamai io e fui super fortunata:il chirurgo mi diede appuntamento per il lunedì seguente, 15 maggio. Scoprii in seguito che mi era andata molto bene, soprattutto per una visita non a pagamento. Quel giorno dunque io e il Top ci recammo allo IEO pr la prima volta. Anche lì attese infinite e poi finalmente la visita. Il chirurgo che poi mi avrebbe operata, devo essere sincera, come persona non mi fu molto simpatico. Però ne parlavano molto bene, e quindi decisi di fidarmi. Mi spiegò cosa sarebbe potuto succedere: dal momento che la TAC come esame diagnostico non riesce a vedere bene in profondità, disse, era solo aprendo che si sarebbero resi conto della vera entità. Quindi c'era la possibilità che dovessero asportare anche altri organi e alcune parti di intestino. In quel caso può succedere che debbano mettere un drenaggio se la "cucitura" delle parti dell'intestino da riallacciare non dovesse tenere (detta in parole molto povere). Io ero angosciatissima, ma ho capito che lì è la prassi dire tutto quello che potrebbe succedere perché uno sia preparato al peggio. Disse che l'intervento sarebbe durato circa 6 ore e che poi sarei stata fino al giorno dopo in terapia intensiva. Questa cosa all'inizio mi fece quasi decidere di farmi operare in Alessandria, perché i pensiero di non avere vicino il Top al risveglio dall'anestesia mi terrorizzava. Speravo potesse stare di notte vicino a me, ma non sarebbe stato possibile. Per fortuna riuscii a superare questa paura perché credo che la decisione di farmi operare lì sia stata per me la vera salvezza. Mi disse che mi avrebbero operata entro un mese, di aspettare la loro chiamata. E, ancora una volta, dovetti mettermi tranquilla e aspettare, aspettare, aspettare...
Intanto continuavo a perdere peso perché non riuscivo a mangiare quasi nulla. Avevo perso, in un mese, più di 10 chili (l'unica parte positiva di tutta la faccenda!)

mercoledì 13 maggio 2020

IO, ANSELMO E GLI ALTRI

Settima puntata. Se vi siete persi le puntate precedenti scorrete in fondo al post e cliccate su "post più vecchi".
Finora vi ho descritto quello che è successo in termini puramente materiali. Non ho ancora parlato del mio stato d'animo. Sarebbe semplice riassumerlo con poche semplici parole, ma ho pensato che mi piacerebbe parlarne in modo più approfondito. Per chi l'avesse dimenticato e si chiedesse chi diavolo è Anselmo, era il nome che avevo dato al mio "nemico".
Come ho già detto, i primi giorni ho affrontato il tutto con molta forza: non ho pianto, anche se solitamente sono molto piangiona. Ma dopo un po' le lacrime sono arrivate, eccome! In un momento la mia vita era stata completamente ribaltata. Soprattutto nel periodo del ricovero iniziale io ero quasi certa che non ne sarei uscita viva. Tenete conto che in quelle tre settimane nessuno dei medici con cui ho parlato (e sono stati almeno 5 o 6 diversi) mi ha mai detto mezza parola di speranza. Nessuno di loro ha detto che avevo qualche possibilità di uscirne. Nessuno. Anche se la mia situazione era sicuramente brutta, e capisco benissimo che un medico non possa dare false speranze, ritengo che se c'è anche solo una possibilità su cento che le cose si risolvano, si debba dare un po' di incoraggiamento al paziente. Io alternavo momenti in cui dicevo (nella testa, ma lo dicevo davvero): "Vaffanculo, bastardo, non ti permetterò di distruggermi!" a momenti in cui ero certa che non avrei visto un'altra primavera. E a volte cercavo anche di convincermi che non era poi una cosa così terribile, pensavo che vabbè, alla fine la cosa positiva è che, se si muore, non si soffre più. Semmai soffre chi resta (e infatti la cosa che mi faceva stare peggio era pensare al Top e alla famiglia e alle amiche, che avrebbero passato un brutto periodo). Una cosa è certa: ognuno di noi ha il proprio carattere e il proprio modo di affrontare le cose. Credetemi se vi dico che non potete sapere come reagirete a una cosa fino a quando non la vivete in prima persona. E qui arriviamo al perché nel titolo ho messo anche "gli altri". Ho potuto vedere diversi atteggiamenti nelle persone che mi circondavano. Qualche volta mi è capitato di leggere cose tipo "Le cose che non dovete dire a chi è malato". Per me non è così, non esistono regole, perché ognuno di noi è differente. Cose che ad altri possono servire magari a me hanno dato molto fastidio. Ad esempio vedo che certe persone hanno bisogno di parlarne molto, altre non hanno fatto sapere a nessuno della malattia.
Per fortuna il Top, che per forza di cose è stata la persona che si è vissuta tutta la faccenda nel modo più intenso, ha fatto esattamente le cose più giuste per me: è nella sua natura essere molto ottimista e solare, quindi non si è mai mostrato depresso (anche se in poche settimane ha perso 5 chili, che per uno magro come lui non sono pochi!). Ma non mi ha mai rimproverata se non reagivo bene. Ecco, questa è una cosa che molta gente fa senza rendersi conto. Io capisco che non sia semplice rapportarsi con una persona gravemente malata (forse in fin di vita), mentre noi stiamo bene. E che sia naturale cercare di incoraggiare. Ma a volte bisogna anche capire che il momento di tristezza o il piccolo sfogo sono proprio necessari. Il sistema migliore in quei casi (e qui mi sento di dire che questo possa essere davvero valido per tutti) è semplicemente esserci e tenere compagnia parlando di tutto normalmente. Mi sono sentita dire spesso che "dovevo essere forte, dovevo reagire", a volte in modo quasi autoritario, come a volermi scrollare. La cosa è doppiamente dannosa: innanzitutto perché la forza non la si trova in vendita al mercato ("Mi dia due etti di forza, grazie. Anzi, facciamo mezzo chilo, che andiamo più sul sicuro") e che lo stato d'animo è una cosa difficilissima da controllare. E poi perché questo mi faceva sentire quasi un'incapace, come se fosse colpa mia di non essere in grado di essere abbastanza forte. Che poi, in seguito, soprattutto quando ho cominciato a fare chemioterapia e ho visto molte altre persone (quasi sempre molto più vecchie di me) nelle stesse condizioni, mi sono resa conto che io stavo reagendo molto meglio di quasi tutti loro.
Quindi nel mio caso quell'atteggiamento non funzionava proprio, anzi. Molte amiche invece mi sono venute a trovare e chiacchieravano normalmente, e questo è stato utilissimo, perché è proprio quello che mi serviva, distrarmi dal dolore interiore. Qualcuna è sparita, forse sentendosi in imbarazzo.
Un'altra cosa che mi sono trovata ad affrontare sono stati i mille consigli su cosa avrei dovuto fare per guarire. Io capisco che se si crede molto in qualcosa si tenda a voler convincere gli altri, ma si deve anche capire che in certi casi ci si prende una bella responsabilità. Mi hanno consigliato le cose più disparate. Io sono una persona con una mente molto scientifica: credo a qualcosa solo se è dimostrabile. Ma se almeno una persona mi avesse detto che lei stessa (o almeno un famigliare) era guarito solo e unicamente facendo, chessò, la cura del bicarbonato, io una piccola chance gliela avrei data. Ma nessuno (ripeto: nessuno), ha mai detto questo, al massimo parlavano del parente del vicino di casa. Mi dispiace, ma se non vedo una cartella clinica che dice che un tumore di terzo grado è sparito bevendo acqua e bicarbonato, chiamatemi pure scettica, ma io non ci credo. Mi hanno mandato video sulla tossicità della chemio, gli stessi video tra l'altro che avevo visto prima di ammalarmi. La chemio è un veleno, lo so bene. Ma alla fine dovete capire che ognuno fa le proprie scelte (per fortuna) e che è responsabile per se stesso. A me sicuramente ha fatto un bel danno al midollo, ma forse mi ha anche salvato la vita. Non lo so, non consiglierei mai a nessuno di fare una scelta piuttosto che un'altra. E ho trovato molto indelicati questi gesti.
Tornando alla cronistoria: il lunedì mi recai all'ospedale per il prelievo per il test genetico e fu un'esperienza piuttosto angosciante. Ma ne parlerò la prossima volta.

martedì 5 maggio 2020

LA SCELTA DI LIDIA

Sesta puntata. Se avete perso le puntate precedenti scorrete in fondo al post e cliccate su "post più vecchi".
Il titolo di oggi è un riferimento al vecchio, famoso film con Meryl Streep, anche se la scelta che dovette fare Sophie fu ben più devastante. Ma anch'io, al momento della dimissione dall'ospedale, mi trovai di fronte a una difficile decisione. 
Erano dunque arrivati gli esiti della biopsia. Non che ci fossero dubbi sulla natura delle cellule analizzate, ma dovevano aspettare per capire che tipo di terapia fosse più indicata. Perché, come mi avevano già detto fin dall'inizio, loro non mi avrebbero operata così com'ero, ma avrebbero provato a fare alcuni cicli di chemio per cercare di diminuire un po', non la dimensione, mi parve di capire, ma la quantità di noduli, e poter intervenire in modo meno invasivo. Mi ero dunque preparata psicologicamente ad affrontare la mia prima chemio. Già qui c'era stato dietro un dilemma non da poco, perché io sono sempre stata un po' restia a utilizzare i farmaci. A parte quelli per il mal di testa, di cui non posso fare a meno, ho sempre cercato di prendere meno medicine possibile. Avevo visto un documentario dove si parlava di quanto dannosa fosse la chemio e in quel momento avevo pensato: "Se dovesse capitare a me, non la farei di certo". Ma poi ci si ritrova dentro in pieno e non è semplice dire: no, non la voglio fare. Psicologicamente si innescano dei processi mentali differenti, tutte le nostre certezze vengono spazzate via. Ve lo posso garantire: non potete sapere come reagirete a qualcosa fino a quando non vi trovate davvero in determinate situazioni. Per quanto io avessi le mie idee sulla nocività delle terapie, in quel momento le vidi anche come l'unica mia possibilità. Anche perché avevo conosciuto un paio di persone che erano guarite da tumori facendo solo la chemio, mentre (destino vuole, proprio in quello stesso periodo), un paio di conoscenti erano morti dopo aver percorso strade alternative. Rimango dell'idea che non potremo mai essere sicuri di niente, magari le persone guarite lo sarebbero state anche non facendo chemio, e le altre sarebbero morte anche facendola. Non è possibile vivere due volte per fare le prove in un modo o nell'altro e quindi scegliamo quello che in quel momento ci fa sentire più sicuri. 
L'oncologo che mi aveva in cura (che vidi comunque ben poco durante il ricovero), mi comunicò dunque la diagnosi definitiva e la terapia consigliata. Ma mi disse: "Però, se vuole, ci tengo a dirle che allo IEO di Milano un tumore come il suo lo opererebbero subito. Conosco un buon chirurgo, se vuole la metto in contatto. Decida lei". Io a quel punto sono entrata in confusione: ovviamente da una parte capivo che essere operata in un centro come lo IEO, dove trattano solo tumori (e il reparto ginecologico è un loro fiore all'occhiello) sarebbe stato molto meglio. D'altro canto io avevo fretta di fare qualcosa. Se avessi deciso di farmi operare lì dov'ero, saremmo partiti subito con la terapia. Io ho un'immaginazione molto fertile e avendo sempre letto fumetti tendo a figurarmi tutto nella testa con immagini molto vivide. Mi immaginavo dunque il mio nemico (Anselmo!) in assetto da guerra, e le cure che, attraverso la flebo, sarebbero entrate in circolo come tanti piccoli soldatini armati fino ai denti, pronti a combattere e distruggere la brutta bestia. Ero pronta alla battaglia! Temevo che le cose si sarebbero trascinate per chissà quanto se avessi deciso di andare a Milano e quindi ero in ansia: cosa avrei dovuto fare? E come facevo io a sapere quale fosse la scelta migliore? Intervento super invasivo ma fatto da mani esperte, o tentativo di ridurre il problema e intervento più semplice? Ovvio che il fatto che l'oncologo me ne avesse anche solo parlato presupponeva che secondo lui andare a Milano fosse la scelta migliore. Dissi all'oncologo di prendermi appuntamento con il chirurgo dello IEO, ci avrei parlato e avrei deciso qualcosa. Mi dimisero dunque il 5 di maggio, un venerdì, dandomi appuntamento al lunedì mattina per un prelievo che sarebbe servito per fare il test genetico, ovvero il BRCA1. Mi venne un po' il nervoso perché dopo tre settimane di ospedale e qualcosa come almeno 10 prelievi non avevano pensato di farmelo prima, ma ero talmente felice di uscire che abbozzai. Finalmente rivedevo la mia casina, dopo tanto tempo. Mi pareva tutto strano. Certamente la mia vita era drasticamente cambiata da quando ne ero uscita 19 giorni prima convinta di stare via per poche ore. 

venerdì 1 maggio 2020

IL TALCAGGIO

Quinta puntata. Se non avete letto le precedenti scorrete in basso e andate su "post più vecchi".
Siamo dunque al momento del talcaggio. Mi portano in sala operatoria e, siccome non c'è stata alcuna visita dell'anestesista (che credo sia una prassi), mi fanno firmare il foglio direttamente lì, mentre sono coricata sulla barella. Mi dicono che non faranno una vera e propria anestesia, ma una sedazione. Io credevo fosse un'anestesia locale, invece ho perso completamente memoria dell'intervento, anche se mi sono svegliata subito, appena terminato. Mi lasciano fuori dalla sala operatoria per un bel po' (penso almeno un'ora) dopo l'operazione. La schiena mi fa un male bestia ma non ricordo se sia riuscita a comunicarlo efficacemente, e comunque non viene fatto nulla per farmi passare il dolore. Mi riportano in stanza dove ci sono mia mamma e mia nipote che staranno con me nelle ore successive. Ricordo solo il forte dolore alla schiena e la richiesta continua di alzare e abbassare lo schienale del letto per cambiare il punto di appoggio e alleviare il male. Solo dopo diverse ore ho pensato che potevo benissimo farlo da sola visto che c'era il telecomando!! La notte invece si è fermato il Top perché dicevano che c'era pericolo che non drenasse bene (mi pare) ed era meglio stare sotto controllo. Avevo infatti ancora il drenaggio, che avrei tenuto ancora qualche giorno. Il giorno dopo ho un dolore fortissimo, oltre che alla schiena, anche nel foro del drenaggio, che mi trascinavo dal primo inserimento del catetere. Il giorno dopo ancora passa il chirurgo che mi gira come un calzino, dicendomi che se volevo migliorare mi dovevo alzare. Io rispondo che ho troppo male, non riesco ad alzarmi e lui ribatte che un signore molto più anziano di me è già lì che zompetta come se niente fosse. Dico, ok, probabilmente ho una soglia del dolore molto bassa, datemi degli antidolorifici decenti e mi alzo. Vorrei dirgli che secondo me è stata la sua assistente a massacrarmi con la sua inettitudine, ma non ne posso essere certa, quindi taccio. Senza troppi complimenti lui mi tira per un braccio facendomi alzare. Ho visto le stelle!! Secondo me in questi casi un po' di delicatezza non guasterebbe. Insomma, dopo molte richieste mi hanno dato un antidolorifico un po' più potente e sono riuscita a stare seduta in poltrona, e dopo un paio di giorni, ad alzarmi un po'. Finalmente, dopo qualche giorno, possono togliermi il drenaggio e mi posso muovere anche fuori dalla stanza. Nel frattempo la mia compagna di stanza è stata trasferita e passo finalmente qualche giornata da sola. Io non sono molto socievole, preferisco mille volte stare da sola. Dopo qualche giorno la magia finisce. Arrivano con un'emergenza, un ricovero improvviso. Ma è... un uomo! Dovete sapere che l'oncologia è un reparto misto e fanno firmare un foglio dove dichiari che, se fosse proprio necessario, accetti di dividere la stanza con un paziente del sesso opposto. Ma, mi dicono in quel momento, non succede quasi mai. E invece eccomi lì, con questo uomo vecchissimo e male in arnese, che per tre giorni mi tormenterà con tosse continua (anche tutta la notte), bestemmie e lamentele varie, scoregge (sì, proprio così) e pisciate non proprio miratissime nel bagno condiviso, senza peraltro tirare lo sciacquone. Io che già non riesco tanto a dormire, passo due notti in bianco. La seconda notte, oltretutto, gli affiancano una badante che non fa assolutamente nulla e mi fa persino venire il nervoso (infatti poi ci litigo, perché lui continua a chiedere che gli portino un sonnifero e lei non fa nulla, né lo accompagna in bagno come dovrebbe fare). Il terzo giorno finalmente lo portano via, ma a quel punto finalmente anche per me sembra giunto il momento di uscire, visto che sono arrivati gli esiti della biopsia e siamo arrivati al dunque. Ma quella che mi si prospetta davanti è una scelta molto difficile.