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mercoledì 13 maggio 2020

IO, ANSELMO E GLI ALTRI

Settima puntata. Se vi siete persi le puntate precedenti scorrete in fondo al post e cliccate su "post più vecchi".
Finora vi ho descritto quello che è successo in termini puramente materiali. Non ho ancora parlato del mio stato d'animo. Sarebbe semplice riassumerlo con poche semplici parole, ma ho pensato che mi piacerebbe parlarne in modo più approfondito. Per chi l'avesse dimenticato e si chiedesse chi diavolo è Anselmo, era il nome che avevo dato al mio "nemico".
Come ho già detto, i primi giorni ho affrontato il tutto con molta forza: non ho pianto, anche se solitamente sono molto piangiona. Ma dopo un po' le lacrime sono arrivate, eccome! In un momento la mia vita era stata completamente ribaltata. Soprattutto nel periodo del ricovero iniziale io ero quasi certa che non ne sarei uscita viva. Tenete conto che in quelle tre settimane nessuno dei medici con cui ho parlato (e sono stati almeno 5 o 6 diversi) mi ha mai detto mezza parola di speranza. Nessuno di loro ha detto che avevo qualche possibilità di uscirne. Nessuno. Anche se la mia situazione era sicuramente brutta, e capisco benissimo che un medico non possa dare false speranze, ritengo che se c'è anche solo una possibilità su cento che le cose si risolvano, si debba dare un po' di incoraggiamento al paziente. Io alternavo momenti in cui dicevo (nella testa, ma lo dicevo davvero): "Vaffanculo, bastardo, non ti permetterò di distruggermi!" a momenti in cui ero certa che non avrei visto un'altra primavera. E a volte cercavo anche di convincermi che non era poi una cosa così terribile, pensavo che vabbè, alla fine la cosa positiva è che, se si muore, non si soffre più. Semmai soffre chi resta (e infatti la cosa che mi faceva stare peggio era pensare al Top e alla famiglia e alle amiche, che avrebbero passato un brutto periodo). Una cosa è certa: ognuno di noi ha il proprio carattere e il proprio modo di affrontare le cose. Credetemi se vi dico che non potete sapere come reagirete a una cosa fino a quando non la vivete in prima persona. E qui arriviamo al perché nel titolo ho messo anche "gli altri". Ho potuto vedere diversi atteggiamenti nelle persone che mi circondavano. Qualche volta mi è capitato di leggere cose tipo "Le cose che non dovete dire a chi è malato". Per me non è così, non esistono regole, perché ognuno di noi è differente. Cose che ad altri possono servire magari a me hanno dato molto fastidio. Ad esempio vedo che certe persone hanno bisogno di parlarne molto, altre non hanno fatto sapere a nessuno della malattia.
Per fortuna il Top, che per forza di cose è stata la persona che si è vissuta tutta la faccenda nel modo più intenso, ha fatto esattamente le cose più giuste per me: è nella sua natura essere molto ottimista e solare, quindi non si è mai mostrato depresso (anche se in poche settimane ha perso 5 chili, che per uno magro come lui non sono pochi!). Ma non mi ha mai rimproverata se non reagivo bene. Ecco, questa è una cosa che molta gente fa senza rendersi conto. Io capisco che non sia semplice rapportarsi con una persona gravemente malata (forse in fin di vita), mentre noi stiamo bene. E che sia naturale cercare di incoraggiare. Ma a volte bisogna anche capire che il momento di tristezza o il piccolo sfogo sono proprio necessari. Il sistema migliore in quei casi (e qui mi sento di dire che questo possa essere davvero valido per tutti) è semplicemente esserci e tenere compagnia parlando di tutto normalmente. Mi sono sentita dire spesso che "dovevo essere forte, dovevo reagire", a volte in modo quasi autoritario, come a volermi scrollare. La cosa è doppiamente dannosa: innanzitutto perché la forza non la si trova in vendita al mercato ("Mi dia due etti di forza, grazie. Anzi, facciamo mezzo chilo, che andiamo più sul sicuro") e che lo stato d'animo è una cosa difficilissima da controllare. E poi perché questo mi faceva sentire quasi un'incapace, come se fosse colpa mia di non essere in grado di essere abbastanza forte. Che poi, in seguito, soprattutto quando ho cominciato a fare chemioterapia e ho visto molte altre persone (quasi sempre molto più vecchie di me) nelle stesse condizioni, mi sono resa conto che io stavo reagendo molto meglio di quasi tutti loro.
Quindi nel mio caso quell'atteggiamento non funzionava proprio, anzi. Molte amiche invece mi sono venute a trovare e chiacchieravano normalmente, e questo è stato utilissimo, perché è proprio quello che mi serviva, distrarmi dal dolore interiore. Qualcuna è sparita, forse sentendosi in imbarazzo.
Un'altra cosa che mi sono trovata ad affrontare sono stati i mille consigli su cosa avrei dovuto fare per guarire. Io capisco che se si crede molto in qualcosa si tenda a voler convincere gli altri, ma si deve anche capire che in certi casi ci si prende una bella responsabilità. Mi hanno consigliato le cose più disparate. Io sono una persona con una mente molto scientifica: credo a qualcosa solo se è dimostrabile. Ma se almeno una persona mi avesse detto che lei stessa (o almeno un famigliare) era guarito solo e unicamente facendo, chessò, la cura del bicarbonato, io una piccola chance gliela avrei data. Ma nessuno (ripeto: nessuno), ha mai detto questo, al massimo parlavano del parente del vicino di casa. Mi dispiace, ma se non vedo una cartella clinica che dice che un tumore di terzo grado è sparito bevendo acqua e bicarbonato, chiamatemi pure scettica, ma io non ci credo. Mi hanno mandato video sulla tossicità della chemio, gli stessi video tra l'altro che avevo visto prima di ammalarmi. La chemio è un veleno, lo so bene. Ma alla fine dovete capire che ognuno fa le proprie scelte (per fortuna) e che è responsabile per se stesso. A me sicuramente ha fatto un bel danno al midollo, ma forse mi ha anche salvato la vita. Non lo so, non consiglierei mai a nessuno di fare una scelta piuttosto che un'altra. E ho trovato molto indelicati questi gesti.
Tornando alla cronistoria: il lunedì mi recai all'ospedale per il prelievo per il test genetico e fu un'esperienza piuttosto angosciante. Ma ne parlerò la prossima volta.

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